mercoledì 3 febbraio 2016

"CETO MEDIO E…" di G Angelo Billia

CETO MEDIO E…



Al 99,99% sul pianeta non c’è ricchezza vera che non sia frutto di maltolto. 
Persino le ricchezze ecclesiastiche lo sono, se non altro sono dovute a circonvenzione d’incapace.
Ho la mia età e, nonostante abbia espresso questa convinzione ad un mare di persone, nessuno è mai stato capace di dimostrarmi il contrario.
Ritengo anche che questa considerazione sia fra le più banali che un essere pensante possa fare, eppure non è così. 
Milioni di persone, in tutto il mondo, spesso senza avere nessuna stoffa per il malaffare, s’imbarcano in avventure finalizzate, nelle intenzioni, ad arricchirle. 
Negli Stati Uniti sono state classificate genericamente come “classe media”, in Italia invece sono definite “ceto medio”. 
A volte, uno su qualche milione ce la fa, ha acquisito la noncuranza per i diritti degli altri, verso i quali si pone a chilometri di altitudine, e mantiene viva l’illusione che anch’essi possano raggiungerlo nel paradiso dei parassiti.
Non sto parlando della marea di artigiani, commercianti, professionisti che sono perfettamente consapevoli di lavorare per vivere, no, parlo di quelli che non demordono dall’illusione di potersi ricavare uno spazio al di sopra degli altri.
 Sono proprio costoro i più esposti alla disillusione quando la bramosia dei ricchi, quelli veri, diviene tale da mettere in discussione il loro angolo di mondo artificiale.
Quanti appartenenti al “ceto medio” ho sentito brontolare verso il “posto fisso” degli operai! 
“Fanno le loro otto ore e poi non hanno un pensiero al mondo!” 
Questo, con qualche variante sul tema, è ciò che dicevano. 
Oggi molti di loro sono preda della disperazione, alcuni razionalizzando, sempre confusamente, che le loro sorti sono indissolubilmente legate a quelle della classe operaia. 
Del resto ci pensa la borghesia a far svanire inconsistenti sogni di gloria, a volte con una banale cartella esattoriale, oppure semplicemente creando le condizioni per immiserire i lavoratori, cioè la maggioranza della popolazione, togliendo di mezzo l’intermediazione fra prodotto, inteso in senso generale e consumatore, in sostanza gran parte della base economica stessa dalla quale il ceto medio attinge.
Purtroppo, se le condizioni oggettive sono favorevoli ad un’alleanza della classe operaia col ceto medio, non lo sono per nulla sul piano soggettivo.
Gran parte della classe operaia langue, stretta fra una forma di neo schiavismo incombente e l’illusione coltivata dai collaborazionisti della borghesia definiti sindacati, di poter ancora patteggiare qualcosina con la classe dominante. 
I tentativi in alcuni settori, di sfuggire a questa regola rifiutando il sindacalismo concertativo, pur essendo in sé un fatto che non esito a definire eroico, risente pesantemente della profonda divisione presente fra le cosiddette avanguardie.
Ognuno coltiva il proprio orticello convinto che diverrà una piantagione: alcuni proponendo ricette socialdemocratiche già dimostrate fallimentari dalla storia, sempre a caccia di “personalità” più o meno autorevoli, disposte a dare visibilità elettorale al nulla collettivo; altri contrapponendo la loro idea dell’essere comunista perché infallibilmente “giusta”, a quella di altri che si affrettano a dichiarare “giusta” la loro; altri ancora che si barcamenano convinti d’avere la “chiave”, consistente soprattutto in una supposta azione collante, che li porterebbe a svolgere un ruolo unitario, magari semplicemente cavalcando qualche parola d’ordine messa a punto al loro interno, senza nulla cercare sul piano della chiarezza politico ideologica necessaria.
Il risultato del lavorio sopra schematizzato è l’incontro, (già deficitario con la classe operaia stessa), meramente protestatario fra “avanguardie” e ceto medio. 
Infatti non sfugge a nessuno la contiguità oggettiva venutasi a creare obiettivamente tra molte parole d’ordine di “sinistra” e quelle della destra xenofoba e fascista, compreso ovviamente la Lega, e gli altri arnesi parlamentari fra i quali appaiono anche figure di spicco del partito di regime. 
La lotta contro l’Euro e l’UE, ad esempio, pur presentando in profondità grandi differenze a seconda di chi la porta avanti, ha l’indubbio difetto, nel sentire collettivo, di apparire sostanzialmente uguale. 
La cosa avrebbe un’importanza relativa se tutto avvenisse nell’ambito di un’azione in cui l’ideologia della classe operaia avesse un respiro tendente all’egemonia.
Purtroppo è proprio questo il problema, la mancanza di un progetto politico unitario col compito di prefigurare un modello di società radicalmente alternativo e l’assenza dell’organizzazione politica che lo spinge avanti, crea le condizioni per le quali, nel sentire comune, il tutto si risolva nelle distinzioni fra regolamentazione delle coppie di fatto e no, fra chi vuole i migranti per bontà e chi pensa prima ai “suoi”, ecc.
Serve a poco strepitare contro i populismi quando fra le ragioni che li favoriscono c’è anche una precisa responsabilità politica di quelli che si sentono comunisti. 
Di questo passo, bisogna dirlo, le fortune del cerebroleso Salvini, ma anche quelle del comico genovese, dipendono in buona parte dall’operato di quelli che nelle intenzioni si sentono comunisti. 
Ciò vale, ovviamente, anche per i successi del partito di regime.



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