domenica 30 marzo 2014

Sardegna, museo a cielo aperto "bannato" dalla storia.

ETNOCIDIO DI UNA CIVILTÀ  [Gavino Minutti]

Non so se essere entusiasta o malinconico se oggi si parla – per come se ne parla – dei ”Giganti di mont’e Prama”.
La Sardegna è terra ignorata da millenni, è terra dal trascorso scordato. E’ mistero fin dai primi bagliori della civiltà mediterranea. Terra che ancora oggi – nonostante i tesori rigurgitati dagl’inferi – rimane al margine della storia, la cui civiltà e arte stupefacente – questo oramai appare chiaro – non ha archetipi di riferimento.
Fernand Braudel ha scritto di Tharros; mont’e Prama sta appena sopra. A Tharros i fenici vi costruirono la capitale dell'ovest, con templi e tofet, protetti da mura grandiose che difendeva la citta non dalla parte del mare, da cui non doveva temere nulla, ma dalla parte della terra ferma. Meglio – ha scritto Braudel – sono state costruite una serie di fortezze interne che dimostrano come i fenici volessero controllare l’entroterra, ma che non poterono farlo se non costruendo una sorta di frontiera fortificata contro gli autoctoni. Aldilà del confine vi era una regione ricca di metalli pregiati e un popolo con una civiltà evoluta, un popolo che dalla sommità di strane torri sorvegliava l’orizzonte per difendere la sua indipendenza materiale e culturale, il suo linguaggio, la sua arte – ancora sommersa dal fango della storia – raccolti in un aggrovigliato enigma.
Dove spesso non arriva la sapienza, può il caso, può il rude metallo di un vomere che s’impiglia su un giacimento di civiltà e arte, disseppellendola da millenni di tenebra. Una civiltà – ci viene raccontato – non aver pari. Provo ad intuire la confusione di Sisinnio Poddi, il contadino che nel marzo del 1974 dissotterra la testa della prima scultura restituita alla luce, che costringerà storici e archeologici a disfarsi (?) di certezze acquisite, a mettere in discussione verità che sapevano apprese definitivamente. Provo ad avvertire il tumulto di Giovanni Lilliu, chiamato ad emettere una prima diagnosi, che si è trovato di fronte il tesoro anelato da sempre. Lo immagino mentre indaga quelle gigantesche sculture – lui, avvezzo ai piccoli bronzetti – statue in pietra arenaria alte 2 metri e più, dagli occhi strani, mai visti prima da nessuna altra parte del mondo. Occhi che parlano a chi li scruta. Occhi che nella storia dell’umanità non sono mai stati disegnati in quel modo, scolpiti con cerchi concentrici, con sopracciglia e naso rimarcati per dare tridimensionalità, per poi svanire nell’oscurità di un volto ignoto. Statue che non potendo parlare, non resta che esprimersi con gli occhi – voce dell’anima – ma che vogliono comunicare – non a noi, certamente – ma a quegl’intrusi di fenici che avevano eretto bastioni ciclopici, che si erano stanziati lì sotto i loro occhi fissi e magnetici, occhi di sentinelle forse poste per allontanare altri occhi avidi che volevano rubare tesori e sapienze. Statue senza bocca, solo un esile segno per evidenziarne la presenza, che noi non potremmo ascoltare e chi sa mai – se mai – capire.
Le antiche culture davano grande rilevanza alla magia delle allegorie. La civiltà dei sardi, ai bastioni fenici eretti a Tharros, vi oppose non solo fortezze nuragiche ed eserciti addestrati, ma qualcosa di più profondo, come può essere l’incantesimo della forza metafisica e assoluta che solo l’arte può estrinsecare. L’enigma di quelle sculture, poste sull’altura di mont’e Prama a sorvegliare i movimenti dell’invasore, un po’ amico un po’ predone – gli egemoni fenici – non appena fuori la propria impenetrabile città, si ritrovava di fronte all’ammonimento di un’arte capace – chissà – di mettere in guardia quello straniero più delle mura nuragiche e dei suoi famosi arcieri.
Non so se quei giganti fossero guerrieri – “padri guerrieri”, quasi in opposizione alle dee madri, si affrettarono a dire – o fossero “guardiani”, come mi piacerebbe pensare, di una civiltà che il Mediterraneo antico conobbe, la cui memoria è stata occultata, cancellata e omessa – non so – se per arcane e misteriose coincidenze della sorte e della storia o per indolenza dei suoi superstiti abitanti. Lilliu raccontava che mentre aprivano una tomba, durante i lavori di scavo, il caldo sole di quella giornata fu all’improvviso oscurato da una violenta tempesta che si abbatté sul quel luogo nel momento che alcune di quelle statue riavevano la luce. Gli antichi “guardiani”, ridestati dall’oblio di millenni, ci ricordavano la bellezza dell’isola fu, al contrario di oggi, infiacchita e mediocre.




                           Videoclip di un brano del gruppo "La Resistenza", dove poeticamente viene accostato  il testo che canta il no della comunità di Brindisi al rigassificatore nel 2006, alle immagini dei giganti di Monti Prama, finalmente mostrati al pubblico al Museo Archeologico di Cagliari, l'idea è quella di ragionare sull'arte e le sue forme simboliche come linguaggio specifico di una identità collettiva e di un territorio, sulla quale innestare dialetticamente linguaggi e simboli contemporanei.

Una sorprendente Sardegna.
di Fiorenzo Caterini.


L’altro giorno ho aiutato mio figlio, in prima media, a fare una ricerca sulla Civiltà Nuragica. La professoressa è costretta, diciamo così, perché nei programmi scolastici essa è praticamente assente.
Sono andato a cercare nella grande enciclopedia della Storia d’Italia edita da Repubblica. Ho cercato, nei primi tre corposi volumi di 800 pagine ciascuno, dalla preistoria all’impero Romano, un cenno sulla grandiosa civiltà sarda.
Zero.
Un giorno il grande storico francese Braudel negli anni ’70 capitò in Sardegna. Rimase sorpreso dalla presenza di migliaia di torri preistoriche che ancora caratterizzavano il paesaggio, e scrisse un capitolo del suo bellissimo libro, “Memorie del Mediterraneo”, titolandolo, appunto, “Una sorprendente Sardegna”.
Quello che è sorprendente, a pensarci, è che la storiografia ufficiale europea, nella figura del suo più autorevole rappresentante, trovi sorprendente una cosa così evidente. Ci sono, ancora oggi, migliaia di monumenti nuragici che caratterizzano il paesaggio sardo, segno di una civiltà tanto grandiosa quanto manifesta, eppure questa parte così evidente ed importante della storia europea e occidentale, sembra invisibile.
Perché?
Quale altra civiltà antica di quasi 4000 anni riesce a caratterizzare con i suoi monumenti, ancora oggi, il paesaggio di una intera regione rendendolo una sorta di gigantesco e unico museo all’aria aperta?
Come è stato possibile che la storiografia europea si accorgesse con così grave ritardo di una cosa così evidente? Com’è possibile che i programmi scolastici italiani, figli di una storiografia ufficiale e accademica italiana, trascurino clamorosamente un così importante pezzo di Storia europea? Com’è possibile che opere tanto prestigiose quanto esaustive si dimentichino della Civiltà Nuragica?
Ho ragionato su queste incredibili omissioni, su questa pazzesca cecità.
Dunque.
La storiografia nazionale è forzata dalla necessità di costruire una storia unitaria, nazionale, che funga anche da cemento etnico. Lo spiega molto bene A.D. Smith nel suo “Le origini etniche delle nazioni”. La storiografia europea, e anche quella occidentale, sono la somma delle tante storiografie nazionali.
La storiografia ufficiale italiana, discendete di Vico e Croce, si trovò a dover fornire alla nazionalità italiana una storia tutta incentrata sulla grandiosità della storia italiana, seguendo quel filone che era nello stesso tempo classico e romantico che dall’antica Grecia passava per l’antica Roma, citando appena la civiltà etrusca, per ripercorrere Umanesimo e Rinascimento e infine l’epopea del Risorgimento. Questa strada già tracciata era già piuttosto congrua e si inseriva perfettamente nel contesto storiografico europeo e occidentale. Non c’era bisogno di altro. La Civiltà Nuragica, non sostenuta da un apparato politico e accademico sostanzioso, finisce così nel dimenticatoio.
Ma su quel dimenticatoio, vorrei provare a dire, hanno influito anche due fattori dolosi, a mio parere.
Primo, il timore che una regione cosi diversa, millenaria e radicata culturalmente potesse in qualche modo offrire spunti di antitesi storiografica, che cioè la storia sarda potesse fungere da antistoria europea, fornendo elementi di contrasto al mondo accademico.
Secondo, che la sottomissione economica effettuata storicamente, con logica coloniale, sulle risorse sarde, dai boschi alle miniere, dalle coste al territorio per servitù militari ed esternalità ambientali, potesse essere ostacolata da una visione autonomista che si fondasse su peculiarità storiche e culturali di così notevole spessore e importanza. Non si può sfruttare e consumare un territorio storico e monumentale, meglio sottovalutarlo.
La cosa più triste e deleteria, per la cultura, non è soltanto che i sardi non studino la civiltà nuragica, o Grazia Deledda, o la storia dei giudicati o la cultura etnomusicale sarda.
La cosa ancora più triste e deleteria per la cultura, è che un bambino italiano, o un bambino europeo, non possa conoscere e capire che la civiltà occidentale, che si diffonde con l’Impero Romano, ha i suoi germi non solo nell’antica Grecia e nell’Etruria, o nell’Egeo, tornando indietro, ma anche nel Mediterraneo Occidentale ed in una civiltà molto più antica e diversa, clamorosa, prepotente, inserita e campione del contesto megalitico atlantico e occidentale.
Per sottovalutare la civiltà nuragica, per fini nazionali, viene amputata al mondo la storia di una parte dell’umanità occidentale. Un crimine scientifico.
La storia nuragica dovrebbe, dunque, essere insegnata non solo in Sardegna, ma in Italia e in tutta Europa.
Che la cultura non dovrebbe avere steccati nazionali.



                                  Lezione di storia della terra sarda a cura dei docenti Su Komandanti Quilo e di Randagiu Sardu al BeB di Assemini a Cagliari.
Corso di altissima formazione e specializzazione professionale.

venerdì 28 marzo 2014

Solidarietà allo scultore Sergio Fronteddu.

Direttore caro, leggo al solito con molta attenzione le cronache dalle pagine del suo quotidiano, sui tanti scempi nei confronti delle forme artistiche contemporanea e degli artisti che la producono in questa isola, artisti che con energia e passione ne rappresentano l'identità e ne animano il dibattito e il confronto linguistico e culturale. 
In questa ottica, volevo manifestare solidarietà all'artista scultore Sergio Fronteddu, che a Nuoro ha inscenato un funerale per sue tre opere d'arte, danneggiate durante una mostra, sfilando con esse adagiate in tre bare fino ad arrivare al museo Tribù di Nuoro. 
Le tre sculture defunte "Matto", "Mattone" e "Mattonella",  erano tre abiti scultura (seunesi) realizzati con colla termofusibile. 
Vorrei soffermarmi su come si è materializzata questa performance processione-provocazione.
 L'artista le aveva presentate al premio Babel 2013, dove era stato anche premiato nella sezione Scultura. 
Il premio concorso consisteva in un tour per rinomati e patinati spazi d'arte contemporanea in Sardegna e un corso di specializzazione che mirava a introdurre gli artisti premiati, all'interno del sistema e del mercato dell'arte contemporanea nell'isola. 
Il problema reale di tutto questo scenario? 
Che non esiste un reale sistema dell'arte in Sardegna, al punto che Fronteddu giustamente ritenne opportuno abbandonare e rinunciare al premio. 
In fondo che premio è quello attesta un professionista come subalterno e studente da introdurre in un sistema? 
La vera questione è che rinunciando al premio, l'organizzazione le ha spedite all'artista imballate con cura ma gravemente danneggiate, al punto da sembrare tagliate con le forbici.
Secondo l'organizzazione al momento dell'imballaggio erano intere, ma chi le avrebbe tagliate allora con delle forbici? 
Da vero professionista, Fronteddu ha risposto non cavalcando facili e becere polemiche, ma con la sua conoscenza dialettica dei linguaggi dell'arte, dando degna sepoltura  alle sculture in bare in colla termofusibile; donandole alla fine della performance al Museo Ciusa di Nuoro, senza passare per tour organizzati da "addetti ai lavori" e per "corsi di specializzazione per inserirsi nel sistema dell'arte sardo".
Così si comporta un vero professionista, aggiungo che le polemiche che sui social network, promosse dalla stessa organizzazione, che lo bollano come piantagrane, sono ingiuste e ingenerose e dequalificano i tanti professionisti dell'arte, operativi nell'isola, che pensano che i processi del fare artistico contemporaneo nell'isola siano una cosa seria. 
Con affetto e stima, Mimmo Di Caterino.

   Lo scultore Sergio Fronteddu.

domenica 23 marzo 2014

Evolution loves Glitch


Evolution (and Darwin) loves Glitch
ovvero i corsi ECDL non vi hanno detto proprio tutta la verità.

Alle scuole superiori girava (viralmente) un ritornello che diceva:

La filosofia è quella cosa
con la quale e senza la quale
la vita resta tale e quale

Riferito al mio professore di filosofia, il ritornello era assolutamente vero.
Si limitava a leggere intere pagine dal libro di testo, e obbligava noi studenti a prendere appunti, perchè “scrivendo si memorizza meglio”, diceva lui. Vero, forse, ma niente di più: mi insospettiscono coloro che hanno un solo comandamento, in questo caso “Non avrai altro metodo al di fuori di questo.”

Riferito a quello che ho sentito dai docenti universitari, il ritornello era forse vero.
Sentivo aleggiare però nelle aule un sottile odore di formaldeide, come se Platone, Kant ed Hegel fossero stati impagliati ad uso e consumo di un sistema scolastico inappropriato e fuori tempo, oltre che per placare la disposofobia dei docenti stessi, forse anche il bisogno di circondarsi di cose morte per sentirsi vivi, chi lo sa, l’ossessione di voler controllare tutto quando ormai si sentono le urla dei barbari ai confini del regno.

Riferito a quello che è la filosofia nella sua natura intima, decisamente falso.
Nascosta nelle pieghe della storia, è forse la trama e l’ordito sui quali ciascuno di noi si muove, prende le proprie decisioni, per sè e per gli altri, ed in un certo senso, a vari livelli, fa quella cosa chiamata storia, forse con azioni sempre troppo limitate, di fronte al disembedding di un potere lontano ma che ha conseguenze vicine.

Ma non è di un ritornello che scriverò in questo pezzo, bensì del glitch.

Una breve ricerca su wikipedia vi renderà e-dot.ti sul fatto che glitch è un termine usato in: elettrotecnica > per indicare un picco breve e improvviso in una forma d’onda, causato da un errore non prevedibile; dai tecnici del suono > ed indica quando le saldature di un cavo stanno per saltare; nel mondo dei videogames > per descrivere bugs nel software che, sfruttati a proprio vantaggio, permettono azioni che normalmente la struttura del gioco non prevederebbe (passare a livelli successivi velocemente, ottenere punteggi incredibili, diventare invulnerabili et similia). Dal punto di vista di Superman > la ridotta gravità terrestre è un glitch che gli permette di fare cose che voi umani non potreste immaginare.

Una ricerca un po’ più approfondita in Rete vi renderà e-dot.tissimi sul fatto che il termine glitch fu usato per la prima volta da John Glenn, nel 1962. Arruolatosi come pilota nel Corpo dei Marines in seguito all’attacco di Pearl Harbor, sopravvisse alla campagna delle isole Marshall e alla guerra di Corea, a differenza di (circa) 37.000 suoi commilitoni, e venne selezionato dalla Nasa dopo essere diventato pilota collaudatore. Fu il primo statunitense ad andare in orbita, restandoci per 4 ore e 55 minuti. Fu proprio durante questa missione, la Mercury-Atlas 6, che John Glenn disse, riferendosi ad alcuni problemi all’hardware del suo veivolo

“Literally, a glitch is a spike or change in voltage in an electrical current.”

Sul Canadian Oxford il termine glitch è inserito nella lista delle parole usate nel ventesimo secolo di cui non si conosce l’origine; sul Random House’s American Slang, invece, la sua etimologia viene fatta risalire alla parola tedesca glitschen e/o alla parola yiddish gletshn (in entambi i casi, “scivolare”). Perbacco. Come ci sarà finita sulle labbra del patriota statunitense John Glenn?

Nel gennaio 2002 il collettivo Motherboard promosse un simposio dedicato a tutti quegli artisti che lavoravano nell’ambito del glitch, ovvero: da un malfunzionamento tecnico, analogico oppure digitale, casuale oppure indotto (operando direttamente sull’hardware oppure a livello di codice) traevano materiale per le loro opere d’arte. Il glitch, in quanto difetto, ispirava artisti visivi, videomakers e musicisti, che ne hanno fatto un elemento estetico nelle loro opere.

Appurato tutto questo, scendiamo nel dettaglio.
Il glitch nelle opere d’arte multimediali, nelle immagini oppure nei video.

Ecco la ricetta.

1 - Scegliete un file .jpg di vostro gradimento. Una vostra selfie andrà benissimo, via.
2 - Cliccate con il tasto destro del mouse sul file, e aprite il file con un editor di testo.
3 - Vedrete una cosa “incomprensibile” simile a questa:



Il Grillo Parlante dei corsi ECDL ci ha sempre detto che non bisogna pasticciare i files in questo modo, perchè dopo non funzionano più. E’ vero, ma noi siamo curiosi, creativi, insolenti, non gli diamo retta e ci mettiamo mano, in uno o più dei seguenti modi, in ordine crescente di creatività:

> scrivendo cose a caso (adèfa235t798$%&/sàdioàasdf+aisjg03w88q4+q84tèf)
> scrivendo frasi di senso compiuto, poesie, copiando citazioni dai vostri libri preferiti
> asportando parti di codice (poche lettere oppure decine di righe)
> copiando e re-incollando intere parti di codice (la danza del ctrl-c ctrl-v)
> aprendo un secondo file (un altro .jgp, o quello che vi viene in mente) e innestando parti del codice di quest’ultimo nel file .jpg che state manipolando

Quando le pulsioni della vostra vena creativa hanno trovato soddisfazione...

4 - Chiudete il file e salvate con la stessa estensione che aveva in precedenza .jpg
5 - Cliccate sul file per aprire l’immagine e ammirate il risultato. Emozionati?

A volte il file è troppo corrotto, e non si vede niente.
Altre volte non si nota alcun cambiamento apparente.
Altre ancora il risultato è un immagine affetta da uno o più glitch.
Serve un po’ di esperienza per ottenere risultati apprezzabili con la tecnica del glitch indotto: quali parti di codice andare a manipolare, cosa togliere e che cosa no, affinchè l’immagine risulti almeno visibile. Comunque, in tutto il processo c’è una buona dose di casualità.

Ve l’avevo detto di fare una copia di sicurezza del file originario? No?

Peccato, avrei dovuto avvisarvi. Il file originario è perso per sempre.

C’è poco da disperarsi. Abbiamo semplicemente accelerato un fenomeno che riguarda (non solo) la materia della Rete: per quanto possa sembrare eterna è comunque conservata su supporti magnetici, che sui lunghissimi tempi tendono a s-magnetizzarsi, a meno che non vengano fatte periodiche copie; un po’ quello che fa la natura quando cerca di sopravvivere al decadimento e alla morte, replicando se stessa.

Anche in natura, guardacaso (ma neanche troppo -caso, visto che la Rete, effetti di composizione a parte, è un “prodotto” dall’uomo, che è a sua volta è un “prodotto” della natura), esiste qualcosa che potremmo chiamare glitch; tanto caro a Darwin quando pensò bene di raccontare la storia dell’evoluzione in modo un po’ diverso da come la vedevano invece i creazionisti; tramite variazioni casuali del patrimonio genetico e glitch le specie si evolvono.

La discussione è ancora aperta, soprattutto negli Stati Uniti – ehi, patria di quel John Glenn che per primo disse “glitch!” - alcuni preferiscono pensare ad un IDD, Intervento Divino Diretto, che ci ha portati ad avere due occhi, due mani, una bocca etc; altri che sia il risultato di una serie di mutazioni casuali, le migliori delle quali hanno favorito certi organismi viventi; altri riesumano Lamarck, che forse si è espresso male ma non aveva proprio tutti i torti, considerando che il comportamento di vita dei genitori va ad influenzare (riassumendo al limite del fraintendimento) il patrimonio genetico che verrà trasmesso alla prole; altri ancora che ci sia un’intenzione precisa dietro a quelle mutazioni, un’idea estetica e funzionale, e che la natura tenda al bello.

Poi ci sono gli OGM, che in fondo sono glitch perchè non sappiamo (oppure sappiamo ma fa comodo far finta di no) tutte le conseguenze del loro inserimento nell’ecosistema.

Poi c’è la creatività, che forse funziona grazie ai glitch, quando improvvisamente vedi la realtà da un punto di vista totalmente diverso e ti chiedi come mai, che cosa sia successo.                                                                         

Insomma, tutti cercano di capire se chi ha aperto il file e ha pasticciato con il codice avesse idea di che cosa stava facendo o meno. Insomma:

Il glitch è quella cosa
con la quale e grazie alla quale
la vita non resta mai tale e quale
se ti va bene, il risultato è bello e funzionale
se ti va male, non sai bene chi ringraziaLe

giovedì 20 marzo 2014

Marco Rallo per Tam Tam Cagliari nr.14.


Tavor Art Mobil – Tam Tam Cagliari n.14.

Route n.13 http://youtu.be/cuAGjCzAfL8

 “Lo smalto urlante” di Carlo Sain, Angelo Barile, Marco Rallo, Luciano Perrotta, Luigi Ruggero Malagnini, Michele Mereu e Chiara Schirru,  Jimmy Rivoltella, Bob Marongiu, Pasquale Di Caterino.

martedì 18 marzo 2014

Tam Tam Cagliari - Laboratorio mobile di viral Design.


TAM TAM CAGLIARI – Laboratorio mobile di viral design.

“L’idea progettuale è quella di creare “movimento” virale a bordo di un’automobile e farne scuola di eccellenza, oggetto di design urbano in movimento, che trasporti energia artistica, un’installazione mobile di sinergie di processi di ricerca artistica, una risultante vettoriale di forze attive di artisti in movimento, non prodotti ma letture di processi che rinnovino energie per rappresentare un altro sistema dell’arte.
Navigatori di rotte semantiche che stimolino la comprensione dei fatti artistici contemporanei oltre le logiche del mai libero mercato privatizzato.
 Il tutto in un’ottica di dissolvenza dei linguaggi e delle discipline artistiche, la Tavor Art Mobil  - Tam-Tam Cagliari – Viral Design muove dall’idea del dono da condividere, spendere e ricambiare in un percorso ciclico di scoperta, un gioco poetico e utopico sotto il segno dello stupore. Una struttura di diffusione dell’arte contemporanea priva di struttura, gerarchia e ruoli.”.

Il vostro critico Tavor





venerdì 14 marzo 2014

Direttore di un Museo? Quattro euro al giorno a San Sperate.

Direttore caro, 
ho sempre amato San Sperate, il paese museo che costituisce un modello di sviluppo turistico e culturale, a partire dal fare artistico contemporaneo, radicato nel territorio.
Leggo che il Comune è in cerca di un direttore-curatore scientifico per il Museo della terra cruda.
Cinque anni di contratto con ipotesi di rinnovo per altri cinque, insomma una bella occasione per chi ha fatto dell'arte e della ricerca del senso dei linguaggi artistici il centro della sua esistenza.
Il compenso di tale figura professionale? Con delibera della giunta comunale nr.21 del 27 Febbraio scorso, di ben mille euro l'anno, ottantatre euro virgola tre al mese, quattro euro al giorno per creare un progetto espositivo artistico, valutare percorsi e contenuti, valorizzare beni e gestire un museo;  a San Sperate il lavoro quotidiano di Direttore e curatore del Museo vale una colazione al Bar con l'acquisto dell'Unione Sarda.
Come al solito in questa terra non si riconoscono politicamente i professionisti della culturale e dell'arte e la colpa di questo è da ricercare ovviamente  nelle amministrazioni politiche.
A questo punto chiedo perché non offrire la gestione del Museo a costo zero? Io lo farei e Antonio Manfredi a Casoria con il suo Cam, di cui è direttore lo fa, con la sua formazione da artista e la sua capacità di confrontarsi con i linguaggi dell'arte contemporanea.
Un museo può essere anche uno spazio sociale e culturale fatto di confronto tra i linguaggi dell'arte al servizio del territorio (sul modello del Cam di Casoria) e può essere pensato come un nodo di rete, di dialogo e di confronto tra gli stessi artisti (in questa maniera ho ragionato ad esempio con un bus ed una automobile, mutandoli in spazi di ricerca linguistica d'arte contemporanea e prima ancora in un centro sociale); semanticamente, se dal punto di vista economico non è più sostenibile, che senso ha parlare ancora di Direttore o curatore di un museo?
 Non sarebbe forse il caso di rimettere al centro del tutto la figura dell'artista e degli artisti, come liberi ricercatori del senso dell'arte contemporanea?




sabato 8 marzo 2014

La Barracciu, Renzi e Cagliari capitale europea del medierraneo.

Direttore stimato,
tanto si è romanzato e favoleggiato sulla novità Renzi sulla scena politica italiana, una novità è costituita da Francesca Barracciu, nominata dallo stesso sottosegretaria alla cultura; qualcuno sostiene che la poltrona l’abbia ottenuta come merce di scambio, dopo essersi ritirata dalla corsa da presidente della Regione Sardegna, perché indagata per uso personale del denaro pubblico, ma si sa che non è così, in fondo il PD è un partito garantista, ma più che la nomina mi turba un altro episodio.
La sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu, ha dichiarato pubblicamente, che un suo primo obiettivo è la promozione di Cagliari a capitale europea della cultura, il problema qual è? Che Cagliari è solo una delle sei città italiane in competizione per tale titolo culturale, che cosa dobbiamo pensare a questo punto? Che le altre cinque candidate devono cercarsi santi in paradiso per riequilibrare la competizione?



venerdì 7 marzo 2014

La grande bolla dell'arte contemporanea.

Nella nostra nazione lo sostengo da ormai un ventennio, da una posizione sempre più marginale, ma è bello trovare delle conferme ispaniche, imperdibile:

Tomo 1: http://youtu.be/ZE4blu10RqM

Tomo 2: http://youtu.be/zcRDUqt0FAg

Tomo 3: http://youtu.be/Lro3U1DI7jg

Tomo 4: http://youtu.be/4e9qEFRVUhA

Pigliaru, Sciola e l'isola museo a cielo aperto.

Direttore caro, leggo di come il Maestro Pinuccio Sciola abbia invitato il neogovernatore Pigliaru a ragionare sull'isola, come grande Museo a cielo aperto nel quale fare lavorare artisti e scultori di fama internazionale.
 Condivido la presa di posizione culturale ed artistica, ma non apprezzo l'approccio "internazionalista", che sappiamo bene come finisca spesso per tradursi in mercato privato dell'arte, dettato da case d'aste internazionali, ai danni del pubblico, da questo punto di vista ben vengano le "resistenze politiche" nel nome della cassa e del portafoglio.
Un Museo a cielo aperto, ha senso nella sua specificità identitaria, e i veri artisti internazionali di cui la Regione deve farsi carico e tutela, sono quelli che abitano e vivono il territorio isolano, a loro e ai loro linguaggi deve andare il compito di non isolarlo.
Vera guida di un territorio sono i suoi linguaggi artistici culturali tradizionali, non è da questi che è partito lo stesso Pinuccio Sciola per farne linguaggio identitario internazionale? 
I linguaggi dell'arte, mutano le tradizioni e i rituali iconici nelle loro forme esteriori.
 Senza tradizione iconica non esiste linguaggio o civiltà artistica.
 La principale occupazione dell'uomo, in quanto artista sociale, da quando è comparso sulla terra, è stata lavorare per immagini,  creare immagini e poi distruggerle, quando gli effetti benefici di queste immagini erano terminati. 
Senza linguaggi artistici non c'è civiltà e non c'è territorio culturale, senza il superamento dei linguaggi fatti tradizione e Accademia, non c'è progresso.
 La difficoltà, quando si ragiona sui linguaggi dell'arte è quella di trovare il giusto equilibrio semantico tra stabilità e variabilità. 
Un linguaggio artistico troppo stabile e convenzionale è privo di dialettica e incapace di perfezionarsi.
Il conservatore, quando si ragiona sui linguaggi dell'arte è il pubblico, la folla che legittima la casta. Non sono i Musei o i galleristi a ospitare finti prodotti artistici, questi si possono eludere con facilità, a prescindere dal valore di mercato imposto, sono i padroni invisibili delle nostre anime che cedono purtroppo soltanto dopo usure secolari.
Ragion per cui, l'invito del Maestro Sciola, a sollecitare la giunta Pigliaru, a creare un isola laboratorio per artisti "internazionali", mi pare troppo conservatore, un Museo a cielo aperto di scultori in terra isolana, che vivano e conoscano la terra e la pietra sulla quale poggiano i piedi, mi appare più intrigante, già esiste in realtà, ma è invisibile e ignorato dalle istituzioni, sarebbe il caso di scovarlo, promuoverlo e tutelarlo, nell'interesse del territorio, il proprio valore simbolico e culturale va autodeterminato e non subito in nome di un internazionalismo di mercato omologante che dal punto di vista turistico e culturale non ha molto da offrire a chi voglia comprendere il significato di essere e vivere questa terra.




mercoledì 5 marzo 2014

Walter Santoni per la Tavor Art Mobil.


Giugno 15 – Gennaio 16: Estate – Autunno – Inverno.

“Existential Travels” di Lucilla Esce, Priamo Pinna, Walter Santoni, Ivano Marchionne, Michele Mariano e Paolo Cervino

lunedì 3 marzo 2014

Siamo tutti gli antipodi di qualcuno


SIAMO TUTTI ANTIPODI DI QUALCUNO
Installazione presso Naturalmente, Via Sant'Agostino, 22 B. Torino
Descritti da Platone nel Timeo e da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia,
il loro nome è composto da “antì” (contro) e “podos” (piede): hanno piedi capovolti,
il calcagno avanti e le dita dietro; abitano dall’altra parte del globo.
Credere nella loro esistenza significava, per i greci del tempo,
accettare la teoria della scuola pitagorica secondo la quale
la terra è sferica (e che ogni oggetto tende a cadere verso il centro di essa).
I padri della chiesa invece rifiutarono questo modello geografico ma soprattutto sociale,
affermando viceversa: la terra è piatta, siamo al centro di essa,
e il cielo con il sole, la luna e le sue stelle è una bella cupola messa lì
a ruotare apposta per noi. Se per la la cristianità l’antropocentrismo era un valore,
per i Greci era questione di relativismo: noi di qua, loro di là, le stagioni al contrario,
il sole che sorge da un lato invece che dall’altro, idem per la luna.
Anzi, non erano antropocentrici nemmeno nella simbologia del corpo umano:
Per nulla scoraggiati dalla posizione periferica dei piedi, i poeti greci ne fecero un simbolo:
Achille “piè veloce” e Teti “dal bianco piede” (Omero), l’enigma dell’animale
che da giovane cammina su quattro, nella maturità su due e nella vecchiaia su tre piedi
(la Sfinge), “Non mi piace un capitano tutto ricci e spocchia [...] me ne basta uno i cui piedi
siano ben fermi e sia pieno di ardimento” (Archiloco), “Le fanciulle si muovevano in danza
coi bianchi piccoli piedi” (Saffo), “i miei piedi non lasciano la casa che mi accoglie” (Erinna).
Quando guardiamo verso il basso, perchè un oggetto c’è sfuggito dalle mani ed è caduto
(forse Sigmund Freud direbbe che il nostro inconscio l’ha lasciato intenzionalmente cadere)
osserviamo implicitamente una delle quattro interazioni fondamentali della fisica: la gravità.
Per la fisica classica: forza conservativa agente fra i corpi; nella relatività generale:
una conseguenza della curvatura dello spaziotempo creata dalla presenza di corpi
dotati di massa e di energia; per il fisico matematico Erik Verlinde: una forza entropica,
un effetto collaterale della propensione naturale verso il disordine; per il Mago Merlino
della Disney, invece, una forza potente, ma comunque al secondo posto dopo l’amore:

Artù: “Più forte della gravità?”
Mago Merlino: “...in un certo senso, è la forza più grande sulla terra.”

Che gli antipodi siano dall’altra parte della terra, che siano non solo diversi da noi
ma addirittura rappresentino il nostro esatto opposto, e tuttavia: anch’essi sono sottoposti
alla forza di gravità, alla massa che attrae, al tempo che scorre, all’entropia che inghiotte tutto.
L’universo non fa distinzioni, non consente eccezioni alle sue regole per chi lo abita;
noi invece ne abbiamo bisogno, per mettere al sicuro quella cosa transitoria che chiamiamo identità,
senza voler prendere coscienza del fatto che siamo tutti gli antipodi di qualcuno.

P-Ars Andrea Roccioletti Studio
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OBLITERAZIONI – Nam Visualart .net
di Gian Luigi Braggio

Un nuovo progetto inclusivo, partecipato e che mette in relazione l'arte con locali, negozi, realtà produttive e sociali... per costruire insieme un'avanguardia culturale. Segni ospitati in spazi inusuali per dar forma alla qualità e stimolare un atteggiamento attivo, etico, responsabile. Mostra d'arte presso la MEZZALUNA: ristorante vegetariano/vegano e negozio di cibi biologici, p.zza E. Filiberto 8/D – Torino. Interventi in giro per la città. Ideato da Gian Luigi Braggio, il progetto vede la partecipazione di: Carla Bertola, Alberto Vitacchio, Lisa Parmigiani, Mimmo La Grotteria, Alessandro Fioraso, Andrea Roccioletti, Ruxiada...




Quella che Levinas aveva definito arte di obliterazione si riferiva all’operazione di nascondere allo sguardo una porzione dell'immagine, interromperne la continuità, l'autosufficienza, tradirne la funzione per lasciare spazio all'interpretazione, al pensiero, ad una visione profonda delle cose al di là delle pretese del bello. Un intervento di obliterazione fa leva sulla potenza critica dell'inespresso, quel Ausdrucklose che per Benjamin è l'elemento che arresta l'apparenza ingannatoria della rappresentazione, interrompe l'autosufficienza del linguaggio per far spazio all'esperienza di verità. L'opera nella sua forma non è conclusa in se stessa bensì dialogante e viva, non esiste per mostrarsi ma per instaurare un rapporto con l'altro, perché in quanto forma sensibile possa diventare porta d'accesso alla dimensione spirituale. Interrompere il consueto, il senso comune, la logica dell'interesse, dell'apparire, il pregiudizio, l'indifferenza: questo è il compito della cultura e dell'arte, invitare ad un atteggiamento attivo, risvegliare la “persona” che sonnecchia in ciascuno di noi. Artista è colui che innesca questo processo, può ritenersi tale non perché offra un oggetto alla devota contemplazione ma nel momento in cui accende e alimenta un dialogo, scende dal piano della rappresentazione alla realtà e vi si mescola: non per giustapporre la sua voce alle altre ma per spargere un seme, un frammento di libertà. Il progetto coinvolge ora la città di Torino, mira a valorizzare la creatività in tutte le sue forme, a farsi inclusivo accogliendo opere di ogni categoria di artisti invitati di volta in volta a partecipare. Segni che si disperdano nel mondo in spazi inusuali a partire da eccellenze produttive, commerciali e culturali, diventano comunicazione nel momento in cui interrompono, bucano la continuità del linguaggio, stimolano la riflessione su temi sensibili superando l'approccio ideologico, si fanno azione, strumento di confronto e di dialogo. Il monaco buddista Thich Nhat Hanh affermava che anche le azioni più semplici come mangiare, bere, camminare, leggere il giornale, acquistare qualcosa, assistere ad uno spettacolo o anche, semplicemente, respirare hanno un’immediata valenza politica: richiamano la necessità della consapevolezza, della responsabilità nei confronti delle cose e degli altri. Dunque, un'avanguardia culturale inclusiva e partecipata che sposti l'attenzione dall'oggetto alla persona e impegni l’arte a percorrere nuove strade, nella prospettiva di un nuovo umanesimo.

OBLITERAZIONI: le ragioni filosofiche
Obliterazioni nasce come proposta concreta nell’ambito di namVisualArt, orientata in particolare alla città di Torino anche se è di fatto assimilabile ad ogni realtà urbana.
Quella che Levinas aveva definito arte di obliterazione si riferiva alla operazione di nascondere allo sguardo una porzione dell'immagine, interromperne la continuità, l'autosufficienza, tradirne la funzione per lasciare spazio all'interpretazione, al pensiero, ad una visione profonda delle cose al di là delle pretese del bello. Un intervento di obliterazione fa leva sulla potenza critica dell'inespresso, quel Ausdrucklose che per Benjamin è l'elemento che arresta l'apparenza ingannatoria della rappresentazione, interrompe l'autosufficienza del linguaggio per far spazio all'esperienza di verità. L'opera nella sua forma non è conclusa in se stessa bensì dialogante e viva, non esiste per mostrarsi ma per instaurare un rapporto con l'altro, perché in quanto forma sensibile possa diventare porta d'accesso alla dimensione spirituale. Interrompere il consueto, il senso comune, la logica dell'interesse, dell'apparire, il pregiudizio, l'indifferenza: questo è il compito della cultura e dell'arte, invitare ad un atteggiamento attivo, risvegliare la “persona” che sonnecchia in ciascuno di noi. Artista è colui che innesca questo processo: può ritenersi tale non perché offra un oggetto alla devota contemplazione ma nel momento in cui accende e alimenta un dialogo, scende dal piano della rappresentazione alla realtà e vi si mescola: non per giustapporre la sua voce alle altre ma per spargere un seme, un frammento di libertà.
Concretamente, iniziative potranno coinvolgere locali, negozi, biblioteche, editori... con modalità innovative e sperimentali di partecipazione che ridefiniscano non solo il ruolo dell’artista ma anche il rapporto tra artista e pubblico. Il progetto mira a valorizzare la creatività in tutte le sue forme, a farsi inclusivo accogliendo e valorizzando opere di artisti come di semplici appassionati invitati di volta in volta a partecipare. Segni che si disperdano nel mondo in spazi inusuali, che si fanno comunicazione nel momento in cui interrompono, bucano la continuità del linguaggio, stimolano la riflessione su temi sensibili superando l'approccio ideologico, diventano azione, strumento di confronto e di dialogo.. Il monaco buddista Thich Nhat Hanh affermava che anche le azioni più semplici come mangiare, bere, camminare, leggere il giornale, acquistare, assistere ad uno spettacolo o anche, semplicemente, respirare hanno una immediata valenza politica: richiamano la necessità di consapevolezza, della responsabilità nei confronti delle cose e degli altri.

Gian Luigi Braggio