SUL MOVIMENTISMO di G Angelo Billia.
“Gettare il cuore oltre l’ostacolo”, a prima vista, a sinistra è una frase che ha il suo fascino, sottintende la caparbietà di chi non si lascia disarmare dalle difficoltà, ma si può essere sicuri che preluda ad una garanzia di continuità della lotta?
Probabilmente sì, ma a condizione che la lotta stessa faccia parte di un progetto strategico che abbia come obiettivo finale la liberazione dell’umanità dall’oppressione capitalistica.
La realizzazione di questa condizione comporta la comprensione dell’ineludibilità di una serie di passaggi, all’interno dei quali il primo posto è detenuto dagli strumenti della lotta e gli obiettivi, cioè la distinzione fra i mezzi da adottare e i fini da raggiungere.
Proprio su questo punto, nella storia passata e recente del nostro paese, la confusione ha regnato spesso sovrana.
Già nel lontano movimento sessantottesco l’elemento che balzava agli occhi era, accanto a quello della grande combattività delle masse, in particolare giovanili, l’indeterminatezza degli obiettivi.
Essi erano compresi in modo confuso e contraddittorio e confluivano tutti nel sogno di redenzione, quasi mai meglio specificato.
La causa di ciò andava ricercata nel ruolo di un PCI avviato sulla strada del revisionismo e nel conseguente annacquamento, quando non esplicito rifiuto, fra le masse in lotta, del concetto stesso di partito, a tutto vantaggio di una concezione movimentista, che di fatto esauriva nella lotta anche la parte di progettualità necessaria a garantirne il successo nel tempo.
Ciò che accadde allora e andò a rafforzarsi nel tempo, è una fusione impropria dello strumento e della progettualità, assegnando allo strumento (la lotta), quelle attribuzioni rivoluzionarie che lo strumento in sé non ha, non può avere.
Si verificò, in sostanza, il meccanismo proprio dei moti spontanei delle masse e l’annullamento, in essi, di quelle che si ritenevano avanguardie.
Assegnare a questo fatto tutta la responsabilità del riflusso successivo sarebbe ovviamente un errore, in quanto sono molte le variabili che l’hanno determinato, ma certamente la perdita della nozione di partito ha fatto sì che venisse a mancare qualsiasi continuità strategica anche con le lotte successive.
Sul versante propriamente dei comunisti, l’accaduto, anche se diede luogo a malumori e a vere e proprie ribellioni, non giunse mai ad una sistematicità d’analisi che permettesse di superare il problema collettivamente.
La stessa costituzione di Rifondazione Comunista, anziché scaturire da un’analisi critica dell’esperienza del PCI e della sua degenerazione, per una parte fu la speranza, dimostratasi velleitaria, di cambiare la situazione in corso d’opera e per l’altra fu la riproposizione tout court del PCI come era andato modificandosi nel tempo.
Il risultato veramente paradossale di queste esperienze è che, ancora oggi, nel movimento che si oppone alle misure capitalistiche, prevale, come e più che nel ’68 l’identificazione dello strumento con la strategia.
Oggi ognuno coltiva il suo orticello attribuendogli una valenza rivoluzionaria che non ha e non può avere.
Senza forzare, con analisi distruttive che lascerebbero il tempo che trovano, ma occorre dirlo che, in situazioni in cui l’oppressione del nemico di classe è tale da rendere istintiva la ribellione dei settori più colpiti, il più bel regalo che si possa fare alla borghesia è far credere alle masse che senza un progetto e un’organizzazione che se ne faccia carico è comunque possibile emanciparsi.
Con questa concezione imperante in premessa, la conclusione più probabile è un massacro e un riflusso che oblierà per un altro mezzo secolo qualsiasi speranza d’emancipazione.
A tutti, ma in particolare ai comunisti, trarre le debite conclusioni.
“Gettare il cuore oltre l’ostacolo”, a prima vista, a sinistra è una frase che ha il suo fascino, sottintende la caparbietà di chi non si lascia disarmare dalle difficoltà, ma si può essere sicuri che preluda ad una garanzia di continuità della lotta?
Probabilmente sì, ma a condizione che la lotta stessa faccia parte di un progetto strategico che abbia come obiettivo finale la liberazione dell’umanità dall’oppressione capitalistica.
La realizzazione di questa condizione comporta la comprensione dell’ineludibilità di una serie di passaggi, all’interno dei quali il primo posto è detenuto dagli strumenti della lotta e gli obiettivi, cioè la distinzione fra i mezzi da adottare e i fini da raggiungere.
Proprio su questo punto, nella storia passata e recente del nostro paese, la confusione ha regnato spesso sovrana.
Già nel lontano movimento sessantottesco l’elemento che balzava agli occhi era, accanto a quello della grande combattività delle masse, in particolare giovanili, l’indeterminatezza degli obiettivi.
Essi erano compresi in modo confuso e contraddittorio e confluivano tutti nel sogno di redenzione, quasi mai meglio specificato.
La causa di ciò andava ricercata nel ruolo di un PCI avviato sulla strada del revisionismo e nel conseguente annacquamento, quando non esplicito rifiuto, fra le masse in lotta, del concetto stesso di partito, a tutto vantaggio di una concezione movimentista, che di fatto esauriva nella lotta anche la parte di progettualità necessaria a garantirne il successo nel tempo.
Ciò che accadde allora e andò a rafforzarsi nel tempo, è una fusione impropria dello strumento e della progettualità, assegnando allo strumento (la lotta), quelle attribuzioni rivoluzionarie che lo strumento in sé non ha, non può avere.
Si verificò, in sostanza, il meccanismo proprio dei moti spontanei delle masse e l’annullamento, in essi, di quelle che si ritenevano avanguardie.
Assegnare a questo fatto tutta la responsabilità del riflusso successivo sarebbe ovviamente un errore, in quanto sono molte le variabili che l’hanno determinato, ma certamente la perdita della nozione di partito ha fatto sì che venisse a mancare qualsiasi continuità strategica anche con le lotte successive.
Sul versante propriamente dei comunisti, l’accaduto, anche se diede luogo a malumori e a vere e proprie ribellioni, non giunse mai ad una sistematicità d’analisi che permettesse di superare il problema collettivamente.
La stessa costituzione di Rifondazione Comunista, anziché scaturire da un’analisi critica dell’esperienza del PCI e della sua degenerazione, per una parte fu la speranza, dimostratasi velleitaria, di cambiare la situazione in corso d’opera e per l’altra fu la riproposizione tout court del PCI come era andato modificandosi nel tempo.
Il risultato veramente paradossale di queste esperienze è che, ancora oggi, nel movimento che si oppone alle misure capitalistiche, prevale, come e più che nel ’68 l’identificazione dello strumento con la strategia.
Oggi ognuno coltiva il suo orticello attribuendogli una valenza rivoluzionaria che non ha e non può avere.
Senza forzare, con analisi distruttive che lascerebbero il tempo che trovano, ma occorre dirlo che, in situazioni in cui l’oppressione del nemico di classe è tale da rendere istintiva la ribellione dei settori più colpiti, il più bel regalo che si possa fare alla borghesia è far credere alle masse che senza un progetto e un’organizzazione che se ne faccia carico è comunque possibile emanciparsi.
Con questa concezione imperante in premessa, la conclusione più probabile è un massacro e un riflusso che oblierà per un altro mezzo secolo qualsiasi speranza d’emancipazione.
A tutti, ma in particolare ai comunisti, trarre le debite conclusioni.
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