martedì 23 dicembre 2014

ATTUALITA’ DELL’IDEA di G Angelo Billia

ATTUALITA’ DELL’IDEA di G Angelo Billia

Nei commenti relativi alle prese di posizione sull’attualità dell’idea comunista, da qualche decennio a questa parte, si nota, spesso anche da parte di persone che si qualificano comuniste e di sinistra, tutta un gamma di reazioni negative.

 La più comune sottintende la necessità del superamento di quelli che vengono concepiti come dogmi.
In buona sostanza, secondo questa critica, pur continuando a sostenere la bontà del marxismo, partendo da un’analisi storica, più istintiva che ragionata, si finisce sempre sul tema del rinnovamento, o, se si preferisce, sulla necessità dell’aggiornamento della teoria, sulla base dei cambiamenti avvenuti nel mondo moderno.
Forse, sarebbe opportuno, nell’affrontare la questione, por mente all’entità dei cambiamenti avvenuti nella borghesia, soprattutto per rispondere al quesito che necessariamente si pone: com’è cambiata la situazione attuale rispetto a quella precedente?
A ben guardare, gli elementi di cambiamento indubbiamente ci sono, ma che questi siano tali da snaturare la stessa analisi marxista, imponendone un ripensamento teorico politico, sembra più una concessione alle velleità intellettuali di qualche personaggio della sinistra piuttosto che una necessità reale.
E’ cambiato il modo di produrre capitalistico. 

Oggi la produzione di beni coinvolge, molto più che nel passato, settori di lavoratori che vengono definiti del “terziario”. 
Il proletario antagonista, in quanto classe, della borghesia, non è più solo l’addetto materialmente alla produzione, altri settori, da quello dei trasporti di beni e persone, a quello della sanità, fino ad arrivare alla stessa scuola, sono coinvolti direttamente o indirettamente nel processo produttivo, né da questo elenco possono essere esclusi i lavoratori del mondo della cultura, in quanto anch’essi produttori di beni, sia pure spesso immateriali.
L’introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo ha ridotto il numero dei lavoratori direttamente impiegati nella produzione e ha contemporaneamente cambiato, in una certa misura, la figura stessa dell’operaio (non è raro, oggi, trovare un solo tecnico là dove qualche decennio or sono erano al lavoro decine di operai in tuta). 
La delocalizzazione industriale è stata resa possibile dall’esiguità del personale altamente qualificato necessario a far funzionare le macchine. 

E’ agevole, trasferendo alcune decine di persone preparate e super pagate, creare rapidamente le condizioni produttive preesistenti lucrando sui salari di milioni di uomini.
A questo proposito si nota un cambiamento nella politica neocoloniale, tradizionalmente tesa ad appropriarsi delle ricchezze. 

Infatti, ha assunto un’importanza d’entità priva di riscontri nel passato, lo sfruttamento diretto della stessa forza lavoro, non solo in dipendenza della spogliazione delle materie prime, ma anche nella produzione di prodotti ad alto apporto tecnologico aggiunto, fino a qualche anno fa confezionati direttamente nei paesi colonialisti. 
Manco a dirlo, ciò avviene in dipendenza dell’assenza di qualsiasi potere contrattuale dei lavoratori.
Né si può dimenticare il peso smisurato assunto dal capitale finanziario nell’economia capitalistica.

 La crisi di sovrapproduzione iniziata alla fine delle ricostruzioni del dopoguerra, ha favorito lo storno del capitale produttivo a favore di quello finanziario, così come l’ha fatto la quotazione in borsa di aziende o parti scorporate di esse, rendendo disponibili, pronta cassa capitali da impiegare in speculazioni finanziarie senza nessun rapporto con la produzione di beni. 
Questi fatti, uniti al peso smisurato raggiunto dai fondi pensionistici di alcuni paesi ha fatto il resto. 
La cosiddetta finanza creativa è il prodotto scontato di questa realtà.
Da ciò deriva l’ulteriore accrescimento del peso che le banche hanno sempre avuto nella gestione capitalistica. 

Sotto questa luce, le esortazioni alle stesse banche di aprire il credito alle aziende per rilanciare l’economia, fa sorridere, soprattutto perché l’economia capitalistica, in questa fase non risparmia la piccola borghesia, tant’è vero che la recrudescenza della crisi ha messo in evidenza, soprattutto nella fase iniziale, l’impoverimento di settori fino ad allora considerati privilegiati, non tanto e non solo nel settore dell’aristocrazia operaia, quanto piuttosto nella piccola e media borghesia.
Gli assetti capitalistici internazionali, cresciuti a dismisura con l’internazionalizzazione dei cartelli finanziari e produttivi, non poteva che dare nuovo impulso alle cordate imperialistiche, creando anche rimescolamenti di portata inedita nel dopoguerra. 

Non è raro trovare multinazionali gravitanti nell’orbita americana, con interessi nell’orbita russa e, o cinese, oppure viceversa. 
Tutto questo, anziché costituire un elemento di stabilizzazione, in realtà è alla base degli accresciuti pericoli di guerra. 

Infatti queste sono contraddizioni che, non essendo assorbite nella normale dialettica imperialista, costituiscono il valore aggiunto nella tendenza degli apparati politici militari a risolvere con lo scontro armato. 
E’ il caso, ad esempio, della vicenda Ucraina.
Nel quadro generale assume rilevanza la conquista delle fonti energetiche, come l’assume, in una sordina ingiustificata, l’importanza dell’operazione tendente a ingabbiare la produzione agricola internazionale entro parametri d’esclusività proprietaria, impensabili solo alcuni decenni or sono.
L’Europa, così com’è venuta a caratterizzarsi, rappresenta un tentativo d’affrancamento dall’orbita americana dell’imperialismo europeo, tentativo fallito perché l’esperienza americana ha fatto sì, quando ancora il progetto non era realizzato, di scatenare una guerra per il petrolio (la prima guerra del golfo), coinvolgendo il nascituro nell’operazione, contro il proprio stesso interesse.

 Non si può dimenticare, infatti, che l’Iraq era il produttore che per primo rifiutava la divisa americana preferendole quella europea, per il pagamento delle proprie forniture.
Da allora, pur permanendo velleità imperialistiche europee d’indipendenza, il vecchio continente ha visto prevalere le vecchie cordate, più o meno stabilmente dipendenti e coordinate con quelle americane.
Sul piano politico militare la cosa ha comportato un riallineamento alla filosofia NATO, cioè USA, appena mitigata dalle levate di scudi di facciata di alcuni paesi europei.
Entrando, poi, nel particolare dei singoli paesi, notiamo che l’elemento unificante è un costante livellamento al ribasso del tenore di vita delle masse e un contemporaneo rafforzamento, in chiave antidemocratica, della struttura di potere capitalistica. 

Il tutto è un indizio sicuro di dove si voglia andare a parare, cioè ulteriore pressione per azzerare il potere contrattuale delle masse lavoratrici e crescita costante dell’accumulazione di capitali, quindi di potere, facendola pagare alle masse lavoratrici stesse.
Com’é reso evidente anche dal presente, parziale riassunto, nulla autorizza a pensare ad un superamento, sia pure limitato, della teoria marxista. 

Le novità in casa capitalista dovrebbero essere incasellate alla voce razionalizzazione. 
Per giungere alla situazione attuale un robusto supporto è stato dato dall’impegno corale dei media, tutto finalizzato al cambiamento del modo di percepire delle masse.
E’ stato un lavoro lento e graduale, che ha portato, da una certa fase in poi, ad abiurare i modelli culturali del passato, primi fra tutti la coscienza anticapitalista e antifascista. 

Questo elemento, a livello di massa ha, prima di tutto, eliminato qualsiasi capacità critica, se si eccettua l’ininfluente mugugno.
L’esperienza storica, soprattutto quella relativamente recente, ha cessato ogni funzione educativa rendendo le masse permeabili anche alle esperienze più negative, anche quelle, appunto, vissute nel passato nel modo più drammatico possibile, come il fascismo.
La personalizzazione della politica, elemento già presente, culturalmente, negli anni settanta, ha avuto la definitiva conferma con Berlusconi, con esso si è andato affermando il partito personale e la demolizione del Parlamento, così, com’era concepito nella carta costituzionale.
Tale trasformazione, vissuta con inusitata naturalezza dal popolo, ha sancito la rottura del cordone ombelicale con la storia della prima metà del novecento e con quanto di negativo essa tramanda anche in termini di uomini soli al comando.

Sul piano politico propriamente impegnato culturalmente, quest’opera di rimozione storica ha mietuto vittime nella sinistra, anche in quella parte, e non è poca, che si richiama idealmente al marxismo.

 In sostanza, la rimozione acritica del passato, ha creato le condizioni per l’affermazione di valori propri della destra, sempre più spesso intesi come adeguamenti della tattica, giustificati dalle mutate condizioni dei giorni nostri.
E’ così che si assiste, prima nell’ultimo PCI, poi in Rifondazione Comunista, fino a giungere da parte delle molte realtà para politiche-organizzative attuali, all’affidamento al presunto potere salvifico delle “personalità” di volta in volta individuate, alle quali consegnare le speranze di riscossa.
Ecco perché la direzione collegiale ha finito per perdere significato ed ecco perché, in più occasioni, assistiamo all’assegnazione del diritto di veto direttamente al capo prescelto, annientando così persino l’idea dell’organizzazione comunista.
Nel momento in cui il capitalismo dà luogo ad un riequilibrio di portata planetaria, a tutto svantaggio delle masse lavoratrici, spazzando via qualsiasi concetto di diritti che non siano i propri, l’idea stessa di alleanze con sue parti supposte progressiste, oltre ad essersi già dimostrata perdente, assume i contorni di un vero e proprio tradimento.
Così come, considerare la situazione determinata dalle scelte capitalistiche, come indizio del cambiamento delle contraddizioni ampiamente sviluppate da Marx e trarne la conclusione della necessità dell’evanescenza dell’organizzazione comunista, soppiantata da formule organizzative, o scimmiottate da un passato scarsamente definito, o da un presente considerato erroneamente rivoluzionario, rappresentano la premessa sicura del fallimento delle lotte rivendicative immediate e delle stesse prospettive di liberazione dell’umanità.



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