lunedì 20 gennaio 2014

La grande bellezza (Golden Globe) delle preposizioni articolate, e del miele sul bordo del bicchiere.


Ovvero: che cosa c’entra tutto questo con il ready-made.
E, indirettamente ma fatalmente, con l’assemblage.

Ready-made si traduce in: già fatto, confezionato.
Il ready-made è dunque un manufatto di uso quotidiano, preso paro paro dall’artista che, collocandolo in un contesto diverso (vedi museo o galleria d’arte), lo eleva al rango di opera d’arte e, casomai, simbolo di qualcosa.

Se avete letto il precedente capitolo dedicato all’assemblage vi verrà facile accettare l’idea che ogni ready-made è l’assemblage di Tizio, che lo aveva costruito per certi scopi, assemblage al quale Caio invece attribuisce scopi diversi. Se volete leggere o ripassare l’articolo potete cliccare qui, altrimenti vi tocca fidarvi.


Mi piace l’idea che il ready-made sia in qualche modo correlato non solo al cambio di significato, ma anche al trasporto da un luogo ad un altro. Cioè, perchè si possa parlare di ready made servono:

-       un oggetto (assemblage) con scopi industriali / commerciali / di uso comune
-       un artista, che sceglie accuratamente l’oggetto (assemblage)
-       un luogo al quale venga attribuito il potere di operare la necessaria trasformazione
-       un pubblico, che stia al gioco

Sono le condizioni sine (qui quo) qua non.

-       Senza un oggetto, non c’è niente da vedere
-       Senza un artista che operi la scelta, l’oggetto non arriverebbe alla galleria
-       Senza un luogo con il giusto potere l’oggetto non ha destinazione al suo viaggio
-       Senza un pubblico che stia al gioco, l’oggetto è tale e quale a prima

Il potere che il luogo ha, quello di completare la trasformazione dell’oggetto, può essere dolce o violento. Nel caso di un potere dolce: il pubblico accetta culturalmente, comprende pienamente il senso dell’operazione, conosce i retroscena, a grandi linee magari la storia dell’arte, insomma gioca sapendo di giocare. Nel caso di un potere violento: il pubblico finge di giocare, cercando di non far capire che sta figendo, altrimenti la critica dell’arte lo relegherà allo status del “te-lo-spiego-io-anche-se-non-puoi-capire” perchè non hai la giusta sensibilità, oppure la sufficiente cultura. Questa, in qualche modo, è violenza.

Avrò avuto dieci anni. In vacanza con i miei genitori in Francia. Ci fermiamo a Vence. Tra le altre cose, andiamo a vedere la Cappella del Rosario di Matisse. Ricordo mio padre e mia madre, uscendo, non le parole esatte, ma il senso, rafforzato dalla loro espressione: “Mah, è un artista. Bello, eh? Particolare.” Quale guerra mondiale si stava svolgendo davanti ai miei occhi, quali gli eserciti sui due fronti? Da un lato il mondo precluso a chi non ha la cultura: dall’altro, quello di chi ha lavorato tutta la vita per sè e per la società senza che la società gli ricambiasse il favore, mettendo a disposizione, in modo comprensibile, le sue meraviglie più alte. Quella guerra mondiale mi toccava da vicino: i miei genitori erano in trincea (ma non lo sapevano). Sarebbe toccata anche a me. Stava già toccando anche me. Una guerra che molti non ritenevano così importante vincere, “tanto si sta bene lo stesso”. Invece non era, non è, affatto vero.

Mi chiedo quale potrebbe essere il ready-made più rappresentativo dei nostri giorni.
Ho pensato ad un “like”, quello del Famoso social Betwork. E’ ready-made se lo estrapoliamo dal suo contesto e dai suoi significati più o meno compresi, e lo lasciamo magari lì da solo. Un “like” a se stesso. I like the like. Considerando che like significa anche a somiglianza di, è un cerchio perfetto.

Un mobile Ikea è un ready-made-self-assemblage?

E gli autoscatti, grottescamente contestualizzati nelle toilettes, che spiccano su tanti profili del Famoso social Betwork, chiamati selfies, sono ready-made? E’ ready-made il concetto che puntella le facciate di queste scenografie da villaggio di film western, dietro alle quali non c’è proprio nulla? Ma fa scena. Anche i proiettili dei cowboys sono a salve. Conflitti dai quali non esce vivo o morto nessuno, ma sono morti entrambi perchè fingono. Perchè le ragazze mettono le labbra “a papera” quando si scattano le selfies?

Nel nostro secolo del pronto-all’uso, il ready-made ha anche un’accezione commerciale.
Penso al ready-to-wear, pret-a-porter.
Penso al ready-meal, al cibo spazzatura.
Penso alle teorie catastrofiste, secondo le quali, forse, si salveranno solo i contadini.
Essendo capaci di coltivare la terra, dunque procacciarsi cibo.
Gli altri non troveranno più cibo-in-scatola da porter consumare nel giro di poco.
Penso alle teorie alternative al consumismo: il riciclo, il riuso.

Penso alla realtà come ready-made collettivo.
Ma di questo scriverò prossimamente, parlando di SF, il Social del Futuro.


Dunque: teniamo a mente tutto questo, e andiamo al sodo.

A proposito dell'ultimo film di Paolo Sorrentino.
A me piace molto il titolo, perché pone l'italiano medio di fronte ad un problema.
Forse non solo l’italiano medio: bensì anche l’italiano pollice, indice, anulare e mignolo.
Chiamarlo “problema” è un problema, perchè per molti non è affatto un problema.
E invece.

Se state pensando che si tratti di una questione di filosofia estetica, siete in errore.
Il mio è un punto di vista strettamente grammaticale.

Infatti, il titolo di questo film vincitore del Golden Globe inizia con un articolo determinativo. Nella nostro caso: inizia con l’articolo determinativo "LA".

Facciamo un esempio.
Scriviamo: "Che cosa penso della "La grande bellezza". E’ sbagliato.
Riproviamo: "Che cosa penso della "Grande bellezza". Manca l'articolo al titolo.
Abbiamo allora due possibilità:
“Che cosa penso de “La grande bellezza”.
Oppure “Che cosa penso della “Grande bellezza”.

Qual’è la forma più corretta? Come si risolve questo mistero?

Un passo indietro.
Esistono gli articoli determinativi IL / LO / LA / I / GLI / LE.
Ed esistono le preposizioni semplici DI / A / DA / IN / CON / SU / PER / TRA / FRA
Le preposizioni semplici contraggono l’articolo determinativo per formare una sola parola.
Queste nuove parole si chiamano: preposizioni articolate.
Esempio: DI + IL = DEL oppure DI + LA = DELLA
“Che cosa penso di + la grande bellezza” = “Che cosa penso della grande bellezza.”

E allora la forma “Che cosa penso de “La grande bellezza” da dove salta fuori?

"La grande bellezza" è citazione di un nome proprio di opera. L’uso che si possa considerare intatto il nome proprio di persona, luogo oppure opera deriva dall'imitazione della scrittura analitica dei testi degli antichi amanuensi, che trascrivevano la poesia o la prosa usando la forma della preposizione articolata con la consonante scempia seguita dall’articolo determinativo. Scrivevano DE + LA ma pronunciavano DELLA (all’incirca, per farla breve).

Da dove prendevano questa convinzione gli antichi amanuensi che hanno trascritto i capolavori del passato? Dalla Divina Commedia. Dante scriveva così. E parecchi poeti dopo di lui hanno continuato a farlo in questo modo.

Però.
Se scrivete “Che cosa penso della Grande Bellezza” non sbagliate affatto. L’Accademia della Crusca, infatti, consiglia l’uso più vicino alla pronuncia, anche per non cadere in un vortice che ci obbligherebbe a scrivere la nostra lingua in un modo diverso da come si pronuncia colloquialmente, e in forme molto arcaiche. Ad esempio, non dovremmo scrivere “Berlusconi, dopo il terribile terremoto, si è recato all’Aquila”, bensì “Berlusconi, dopo il terribile terremoto, si è recato in L’Aquila”. Suona male, non scorre. A prescindere.

Questo per dire: dietro a molte delle scelte che compiamo ogni giorno si nascondono storie insospettabili (anche a noi stessi). Parte del nostro compito, e probabilmente della nostra realizzazione, è diventare coscienti delle scelte che stiamo facendo. Questo si traduce nel diventarne pienamente responsabili. Uno dei compiti attribuiti alle arti: compiere delle scelte (soggetto: l’artista), e far compiere delle scelte (a chi? al pubblico). Oppure, almeno: far comprendere al pubblico il perchè delle sue scelte (delle scelte del pubblico).


L’estetica non dovrebbe essere soltanto un ornamento, nè l’opera essere solo decorativa.
Tantomeno, non dovrebbe essere sbilanciata solo per essere esteticamente gradevole, e dunque attirare il pubblico, oppure i favori della critica. Altrimenti è un ready-made costruito ad arte da qualcuno per essere esportato e consumato da chi vuole una bella immagine rassicurante e preconfezionata.

Mi viene in mente una citazione latina, che credo di aver sentito almeno dieci anni fa. In breve e parafrasando, parla del medico che cosparge di miele il bordo del bicchiere che contiene una medicina amara, così che il malato, ingannato, mandi giù tutto.

Il problema è che a cospargere troppo di miele si inzacchera anche la medicina, che non funziona più (per non parlare dei bicchieri pieno solo di miele: fantastici, ma chi vivrebbe solo di questo?). La stessa cosa per le arti: raramente si trova il giusto equilibrio di estetica (piacevolezza) e capacità di condurre fuori dalla propria area di comfort il pubblico. Dal momento che molto pubblico ha una forte dipendenza da sostanze divertogene, risulta più facile averlo tra i propri acquirenti con molto miele e poca medicina.

Poi ci sono i complottisti che affermano che non si vuole dare al pubblico nessuna medicina, per tenerlo così com’è, e magari non sbagliano del tutto.

Tony Servillo, al telefono con la giornalista di Rai News, convinto che non si senta più quello che sta dicendo, perchè la conversazione telefonica è disturbata dall’attraversamento in automobile di una galleria: “Ma [bestemmia]... ‘sta cretina di Rai News”. Lo stesso, poco prima, alla giornalista che gli chiedeva un’opinione in merito alle critiche mosse al film: “Credo che la maggior parte degli italiani voglia condividere un entusiasmo...”

Quando ho visto alcune scene della Grande Bellezza, ho pensato: è un ready-made!
C’era la scelta degli oggetti da parte dell’artista-regista.
E non solo degli oggetti: anche dei ruoli, delle situazioni.
C’era il luogo adibito alla trasformazione in simbolo: il contesto del film, lo schermo.
Alcune inquadrature, l’uso della luce.

Quando un artista si confronta con la tecnica del ready-made sta cercando un senso nell’oggetto che estrapola dal contesto. L’oggetto è un assemblage prodotto dalla società che l’artista stesso abita, nella quale si muove. Dunque, cerca un perchè a quell’oggetto. Alla società che l’ha prodotto, così, in quel modo. E probabilmente cerca anche un’indulgenza plenaria per se stesso.

Indulgenza plenaria alle scelte che ha compiuto nella vita. Quelle che lo hanno condotto ad un destino piuttosto che ad un altro. E indaga a che punto finisca la responsabilità per sè e per gli altri (vittime collaterali), e da che punto in poi sia “destino”. Qual’è il potere del luogo che trasforma l’oggetto in simbolo? Chi dà a questo luogo il suo potere? Qual’è il senso dell’oggetto? Qual’è il senso della società che l’ha prodotto? Qual’è il mio senso all’interno di questa società? C’era qualcosa che poteva essere tentato, e invece la mancanza di volontà oppure il destino l’ha impedito?

“C'erano obiezioni che erano state dimenticate? Ce n'erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere. Dov'era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov'era l'alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò le mani e allargò le dita.
Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l'altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore e ve lo rigirava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. «Come un cane!», disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.” [da “Il processo” di Franz Kafka]

A proposito dell'ultimo film di Paolo Sorrentino.
A me piace molto il titolo, perché pone l'italiano medio di fronte ad un problema.
Chiamarlo “problema” è un problema, perchè per molti non è affatto un problema.
E invece è un problema, e precisamente: quanto decido io, e quanto decide il destino.

Jep Gambardella: “A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?". Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.”

Forse quello che chiamiamo destino è in parte una resa; una resa di fronte alla mole immensa ed inestricabile di (con)cause che ci spingono a questa piuttosto che a quella scelta. Tutto il resto rischia di diventare una bella favola: ciascuno si costruisce la sua, per ottenere il perdono da se stesso. Anche con un ready-made sontuoso (che rischia di diventare pre-sontuoso). Basta crederci, e trovare buoni complici.

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