mercoledì 5 novembre 2014

"Omaggio alla cravatta" di G Angelo Billia.

Cara Eleonora Forenza
E se provassimo a fregarcene dei livelli produttivi e ci concentrassimo su quelli dell’occupazione?
Lo so, è difficile disfarsi di un linguaggio divenuto “patrimonio” di larga parte della sinistra, sindacale e non, ma questo linguaggio deriva da una concezione dello stato interclassista che, sino ad oggi ha surrettiziamente unito gli interessi dei lavoratori a quelli del padronato, sia esso interno o internazionale.

 Il risultato non è mai stato la difesa di tutti, piuttosto ha comportato la subordinazione degli interessi dei lavoratori a quelli del padronato.
Il “sistema paese” comprende sia gli artefici delle sue ricchezze, i lavoratori, che i loro parassiti, i quali se ne sono sempre altamente fregati di tutti i sistemi salvo il loro, quello della ricchezza accumulata sulla pelle della gente che lavora davvero.
Mi focalizzo sulle espressioni che hai usato perché sono esemplificative di una concezione che vede “naturalmente” gli interessi dei lavoratori subordinati a quelli del capitale, semplicemente, ma fedelmente esemplificata con l’asserzione certamente non tua “senza i padroni non c’è neanche il lavoro”. 

Non è il caso che ti ricordi che quest’affermazione viene direttamente dalla “cultura” padronale e revisionista, da sempre impegnata a giustificare l’ingiustificabile.
Devo dire che, quando tutto questo passa attraverso i comunicati dei lavoratori sotto attacco padronale, non lo condivido, ma lo capisco. 

Dopo decenni d’abitudine, indotta dai sindacati confederali e dalle forze politiche, ad affrontare in modo “compatibile” le vertenze, è il minimo che possa accadere.
Altra cosa è la possibilità di accreditare il tutto sotto l’egida di un approccio comunista. 

E’ storia vecchia, nel tempo qualcuno sembra rinsavire e altri, i più preparati? 
Oppure quelli che hanno ancora qualcosa da perdere? 
Continuano pervicacemente nella convinzione che i padroni possono essere meno cattivi e che, comunque siamo sulla stessa barca.
Per come la vedo io delle due, l’una, o rimangono col cerino in mano, quando il gioco arriva alla fine, e allora si bruciano, oppure si convincono che, in fondo, c’è una borghesia di “sinistra” che non è poi così male.
Infine, non ti viene in mente che le scuse è chiamato a fornirle chi ha responsabilità dell’accaduto? Perché tu? 

Vuoi condividere le responsabilità di Renzi per senso materno, oppure siamo all’identificazione col sistema che ha portato a questo?






QUANDO UN OGGETTO CAMBIA LA VITA
(omaggio alla cravatta)


Un tempo non molto lontano, quando i “colletti bianchi” scioperavano solo se “quelli in tuta” riuscivano a prenderli per il collo, pur avendo già, il sindacato, una parte del gruppo dirigente inamovibile per grazia divina, poteva fregiarsi di una figura di sindacalista indistinguibile dai semplici operai. 

Erano i sindacalisti in tuta, quelli che avevano, come unico compenso, la gratificazione di aver fatto al meglio qualcosa per sé e per i propri compagni.
Le conquiste dell’autunno caldo scompigliarono le cose.

 Per un po’ l’ambiente in cui operavano i sindacalisti in tuta migliorò, rendendo più facile il lavoro, poi, i distacchi sindacali aprirono la strada ad un nuovo tipo di sindacalista. 
Accanto ai distaccati che mantenevano inalterate le caratteristiche del sindacalista in tuta, si andò affermando un nuovo tipo di sindacalista. 
Erano i tempi degli status symbol, quelli in cui vivevi meglio semplicemente perché qualcosa ti faceva somigliare a qualcun altro considerato migliore di te.
E’ lì, in quel contesto, che la cravatta fa il suo prepotente ingresso nelle nuove leve sindacali. 

Vuoi mettere, magari guadagnavi anche di meno perché facevi a meno dei premi di produzione, ma nulla valeva quanto la famigliarità acquisita con l’altro mondo, quello della cravatta da sempre. 
Un peccato veniale, si dirà, sarebbe senz’altro così se quell’aspirazione innocua non fosse stata la breccia verso ben altri privilegi e storture.
Nei rapporti col padronato, soprattutto quando sei chiamato a masticare argomenti aziendali che conosci bene, si instaurano, a volte anche inconsciamente, delle strane alchimie: i momenti conviviali “misti” che pure ci sono, la pausa per un caffè, la battuta bonaria della controparte, semplicemente l’impressione di essere un pari tra pari; l’aereo pagato che ti fa sentire tanto manager; l’albergo non proprio scadente e, perché no, la cena “spesata” nel ristorantino d’angolo; la moglie interpellata sul marito che risponde con finta noncuranza “è a …., ha delle trattative in piedi”, ecc.
E’ giusto dire che molti non hanno mai perso la bussola nonostante tutto questo, ma è importante sottolineare che molte carriere, sindacali, ma non solo, sono cominciate così, grazie all’uso di una banalissima cravatta. 

Forse vale la pena di ricordarlo, soprattutto quando ci si domanda perché il sindacato è l’ombra di sé stesso.




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