PARLANDO DI “VECCHI” di G Angelo Billia
Per una volta mi permetto d’andare oltre la correttezza, più o meno accettata da tutti, sconfinando su un argomento di cui si parla poco, ma che aleggia, pudicamente inespresso, in tutto ciò che noi diciamo.
Mi riferisco al concetto di vita, riferito al genere umano, che sempre traspare nei nostri scritti, nei nostri dialoghi, nelle nostre battute, persino nei nostri pensieri inespressi.
Poiché mi picco d’usare lo stesso metro che uso per gli altri anche per me stesso, chiarisco che le osservazioni sotto riportate sono sempre riferite a “noi” e non “agli altri”.
In particolare parlo di noi, vecchi combattenti comunisti, che portiamo nel colore dei capelli le tracce indelebili delle stagioni vissute.
“I giovani non capiscono nulla”.
Questo concetto variamente espresso, lo ritroviamo ogni qual volta non crediamo soddisfacente il loro operato.
Il massimo dell’obiettività che riusciamo ad esprimere consiste nell’attribuirne la causa all’azione perniciosa, sul piano culturale, dei media.
Dimentichiamo che i giovani, pur essendo cresciuti nella società marcia e corrotta che conosciamo, sono pur sempre un nostro “prodotto”.
Se la fragilità giovanile ci colpisce, a maggior ragione dovrebbe colpirci la nostra fragilità, cosa che ha permesso alla società di caratterizzarsi in questo modo.
Già, la nostra fragilità, quella che neghiamo ponendoci come maestri traditi.
Non sarà che, in fondo, tutti i nostri insegnamenti nascondono l’incapacità di continuare a rapportarci con la vita in prima persona?
In fondo siamo “vecchi”, le forze sono quelle che sono e il nostro l’abbiamo fatto.
Eh sì, perché alla fine, espresso o no è questo l’elemento centrale.
Se ci pensiamo, ci sono molte spie a cui porre attenzione rispetto a questo argomento: il fastidio rispetto alle manifestazioni più rumorose del mondo giovanile; la giustapposizione, a volte inconscia, fra umanità e mondo animale; l’incapacità persino di capire che il mondo giovanile possa avere proprie dinamiche da comprendere, prima che da condannare.
Sopra a tutto, però, c’è l’elemento dirimente, cioè l’abitudine di buttare ciò che resta della vita assisi sul trono dei ricordi, nell’attesa sdegnata che qualcuno raccolga il nostro scettro.
Personalmente sono convinto che la missione dell’uomo sia quella di garantire la continuazione della specie, non solo in senso biologico.
Ciò vuol dire che mettere al mondo dei figli è importante, ma lo è altrettanto fare tutto il possibile perché la specie si liberi di ciò che le impedisce di vivere al meglio, liberando le sue potenzialità in tutti i campi.
E’ per questa ragione che, pur sapendo che alla fine saranno i giovani a liberarci, penso anche che il posto dei “vecchi” sia ancora e sempre sulle barricate.
L’alternativa, anche se non ce ne accorgiamo, è la vita vegetale, in attesa della morte biologica.
Per una volta mi permetto d’andare oltre la correttezza, più o meno accettata da tutti, sconfinando su un argomento di cui si parla poco, ma che aleggia, pudicamente inespresso, in tutto ciò che noi diciamo.
Mi riferisco al concetto di vita, riferito al genere umano, che sempre traspare nei nostri scritti, nei nostri dialoghi, nelle nostre battute, persino nei nostri pensieri inespressi.
Poiché mi picco d’usare lo stesso metro che uso per gli altri anche per me stesso, chiarisco che le osservazioni sotto riportate sono sempre riferite a “noi” e non “agli altri”.
In particolare parlo di noi, vecchi combattenti comunisti, che portiamo nel colore dei capelli le tracce indelebili delle stagioni vissute.
“I giovani non capiscono nulla”.
Questo concetto variamente espresso, lo ritroviamo ogni qual volta non crediamo soddisfacente il loro operato.
Il massimo dell’obiettività che riusciamo ad esprimere consiste nell’attribuirne la causa all’azione perniciosa, sul piano culturale, dei media.
Dimentichiamo che i giovani, pur essendo cresciuti nella società marcia e corrotta che conosciamo, sono pur sempre un nostro “prodotto”.
Se la fragilità giovanile ci colpisce, a maggior ragione dovrebbe colpirci la nostra fragilità, cosa che ha permesso alla società di caratterizzarsi in questo modo.
Già, la nostra fragilità, quella che neghiamo ponendoci come maestri traditi.
Non sarà che, in fondo, tutti i nostri insegnamenti nascondono l’incapacità di continuare a rapportarci con la vita in prima persona?
In fondo siamo “vecchi”, le forze sono quelle che sono e il nostro l’abbiamo fatto.
Eh sì, perché alla fine, espresso o no è questo l’elemento centrale.
Se ci pensiamo, ci sono molte spie a cui porre attenzione rispetto a questo argomento: il fastidio rispetto alle manifestazioni più rumorose del mondo giovanile; la giustapposizione, a volte inconscia, fra umanità e mondo animale; l’incapacità persino di capire che il mondo giovanile possa avere proprie dinamiche da comprendere, prima che da condannare.
Sopra a tutto, però, c’è l’elemento dirimente, cioè l’abitudine di buttare ciò che resta della vita assisi sul trono dei ricordi, nell’attesa sdegnata che qualcuno raccolga il nostro scettro.
Personalmente sono convinto che la missione dell’uomo sia quella di garantire la continuazione della specie, non solo in senso biologico.
Ciò vuol dire che mettere al mondo dei figli è importante, ma lo è altrettanto fare tutto il possibile perché la specie si liberi di ciò che le impedisce di vivere al meglio, liberando le sue potenzialità in tutti i campi.
E’ per questa ragione che, pur sapendo che alla fine saranno i giovani a liberarci, penso anche che il posto dei “vecchi” sia ancora e sempre sulle barricate.
L’alternativa, anche se non ce ne accorgiamo, è la vita vegetale, in attesa della morte biologica.
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