Cagliari capitale europea della cultura? Un fallimento - Antonio Musa Bottero
Credo che la maniera più onesta e costruttiva di porci di fronte al tentativo di Cagliari di concorrere a capitale europea della cultura sia quello di considerarlo per quello che è: un fallimento.
Ad applaudire in maniera inconsulta si rischia di spellarsi le mani e di alimentare un processo onanistico collettivo che non porta da nessuna parte, giacché la tensione collettiva per una buona politica sulla cultura non può e non deve mica concludersi con questa vicenda.
Parliamoci chiaro, gli applausi sconclusionati servono solo a cristallizzare posizioni di comodo e situazioni che potrebbero invece rappresentare l’inizio di percorsi evolutivi virtuosi e innovativi, ma solo a condizione che vengano sottoposti a critica e discussione.
Parliamoci chiaro, gli applausi sconclusionati servono solo a cristallizzare posizioni di comodo e situazioni che potrebbero invece rappresentare l’inizio di percorsi evolutivi virtuosi e innovativi, ma solo a condizione che vengano sottoposti a critica e discussione.
Appare chiaro quindi che alla luce di questo fallimento debba iniziare un’analisi seria e costruttiva sulla vicenda e sull’intero corso della politica cittadina sulla cultura.
E pensare che tutto iniziò sotto i migliori auspici, con la meravigliosa immagine di quell’asta posta in essere dagli artisti locali che misero in vendita le loro opere per finanziare la campagna elettorale di Zedda.
Tanta era la fiducia.
Tanta era la fiducia.
Un’immagine bellissima e suggestiva, apparentemente limitata ad un fatto simbolico ma a ben vedere già carica di formidabili contenuti programmatici.
Una capitale della cultura in senso moderno infatti non può assolutamente prescindere da un’attenzione, un dialogo e un’interazione profonda e permanente con tutti i focolai di produzione di cultura e arte nel territorio.
In particolare in questo periodo di liberismo sfrenato dove arte e artista sembrano costituire entità inscindibili dal cosidetto “mercato dell’arte”.
Il “mercato dell’arte”, concetto carico di ideologia e fatto di gallerie private che decidono cosa è arte e sopratutto cosa è arte vendibile in aderenza agli stesse parametri standardizzati del mercato delle cipolle, dei pomodori e delle azioni di borsa.
Un “mercato dell’arte” che soffoca possibilità, spontaneità, diversità, intuizioni, novità… che non sono contingenze ma sostanza dell’arte.
Il “mercato dell’arte”, concetto carico di ideologia e fatto di gallerie private che decidono cosa è arte e sopratutto cosa è arte vendibile in aderenza agli stesse parametri standardizzati del mercato delle cipolle, dei pomodori e delle azioni di borsa.
Un “mercato dell’arte” che soffoca possibilità, spontaneità, diversità, intuizioni, novità… che non sono contingenze ma sostanza dell’arte.
Un’amministrazione di sinistra e una capitale della cultura degna di questo nome dovrebbe in qualche modo indossare le vesti da “mecenate” (passatemi il termine) e coprire l’enorme vuoto e l’infinita tristezza legati al cosidetto “mercato dell’arte”.
Una capitale della cultura degna di questo nome ha il dovere di intrattenere un rapporto stretto e simbiotico con gli artisti locali, deve avere la sensibilità di accogliere e fare propri talenti ed energie che nascono dal basso come la più preziosa delle risorse.
Amministrare la cultura significa spendersi, creare condizioni, impiegare energie intellettuali, mettere in gioco intelligenze e denari per intercettare quel che viene dal territorio e su queste basi organizzare progetti credibili.
Amministrare la cultura significa spendersi, creare condizioni, impiegare energie intellettuali, mettere in gioco intelligenze e denari per intercettare quel che viene dal territorio e su queste basi organizzare progetti credibili.
Cagliari tutto questo non l’ha fatto... ma siamo sempre in tempo per iniziare a farlo, se a un certo punto la smettessimo di battere le mani.
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